Milano, 5 Maggio
Oggi, affacciandomi alla finestra, non ho visto
giocare a calcio i ragazzini in piazza San Marco, sulla quale guarda
la mia casa, tra i resti delle bancarelle che vi tengono mercato il
lunedì e il giovedì. In genere, ce n'è una
nuvolaglia, affaccendati a correre dietro palle, di tutte le
categorie e di tutte le età: scolari delle scuole medie con la
cartella dei libri abbandonata in un angolo e le dita macchiate
d'inchiostro, garzoni di fabbro con la tuta sudicia di morchia,
apprendisti parrucchieri con la chioma lustra di brillantina. Li
conosco tutti dai nomi di battaglia che si son dati:
«Mazzola» è un tracagnotto biondastro dalla faccia
larga e ridente; «Gabetto» un bruno esile e nervoso che ha
la specialità di non scomporsi i capelli nemmeno nelle fasi
più focose del giuoco; «Bacigalupo» è quello
che, in genere, difende la porta, sorprendentemente agile per la sua
rotonda corporatura; eppoi «Castigliano», «Menti»,
«Loik», «Ballarin», «Maroso», e cosi
via. Ci sono, ci sono stati tutti i giorni, in piazza San Marco, a
giuocare: non so da quando, forse da sempre. Si allenano per la
grande partita della domenica, quando si mettono in maglia e
mutandine, e allora, ai margini, si raccoglie anche il pubblico dei
passanti a guardare. In una di queste partite, uno di essi che si
chiamava «Grézar», fu degradato sul campo:
cioè i compagni gli tolsero quel nome, e gliene diedero un
altro, più modesto.
Oggi la degradazione è stata generale.
Sparpagliati a gruppetti, ai quattro angoli della brulla piazza, a
semicerchio intorno a uno che leggeva un giornale sgualcito, i
ragazzini di San Marco avevano ripreso ognuno il proprio nome di
tutti i giorni, quello col quale il maestro, a scuola, li chiama a
recitare la poesia di Aleardi e il padrone della bottega li iscrive
nel sindacato dei «praticanti». E così
«Mazzola» non era più che Dubini Mario, alunno della
«quarta B». Era lui che leggeva il giornale ai compagni,
sedutigli attorno in semicerchio, e ogni tanto approfittava della
ciocca di capelli che gli scendeva sulla fronte per ritirarsela su, e
passarsi, intanto, la mano sugli occhi. I suoi compagni più
piccoli quelli che, in genere, venivano adibiti, nelle partite della
domenica, a raccogliere le palle che uscivano in «fallo
laterale» (quante volte ho rabbrividito, alla finestra,
vedendoli guizzare fra un tram e un'automobile!) e che aspiravano a
diventare, a loro volta, Loik, Gabetto, Bacigalupo e Maroso,
stendevano, a una a una, per terra, come un generale distende la sua
truppa, le figurine dei popolari giocatori, di cui ognuno di essi
è, più o meno, ricco collezionista. C'era un po' di
vento, e il pulviscolo di rena, che esso trascinava nella sua corsa,
ogni tanto ricopriva una di quelle figurine, minacciando di
sotterrarla; ma subito il collezionista la spazzava via, passando col
dorso della mano una lieve carezza sul cartoncino e poi soffiandoci
sopra, puntualmente. Sono ancora gli unici, i ragazzini di piazza San
Marco e di tutta Italia che si ostinano a lottare contro i tentativi
della rena di inghiottire i loro diciotto eroi. E le figurine che li
rappresentano nell'atto di calciare la palla o di ghermirla al volo,
continuano ad essere oggetto di un affettuoso e reverente mercato,
seguitano a passare di mano in mano, come vivificati per
l'eternità dalla rispettosa ammirazione che suscitano nei loro
giovani emuli.
Per la partita del 22 maggio con l'Austria, se si
farà, il collega Carosio, miracolosamente scampato al
disastro, dovrebbe fare, per i ragazzi di tutta Italia, una
trasmissione speciale, ribattezzando col nome degli scomparsi i loro sostituti.
- Mazzola passa a Menti; Menti indietro a
Castigliano...- dovrebbe egli dire al microfono; chè almeno ai
ragazzi non sia tolta l'illusione dell'immortalità.
Sono appena cinque giorni che li abbiamo visti
giuocare l'ultima volta, qui a Milano. La squadra era incompleta. Ci
mancava anche il suo capitano, Mazzola. Ma presente era l'orgoglio
della bandiera, e fu questo che non le consentì di ammainarsi.
Quella sera, a Milano, serpeggiava lo sconforto perchè la
squadra della città rivale si era cucita sul petto, proprio
lì a San Siro, il suo quinto scudetto. E già domani
l'erba comincerà a crescere sulla tomba di quei diciotto
giovani atleti che sembravano simboleggiare una omerica, eterna,
miracolosa giovinezza. Come possono rendersene conto i ragazzi di
piazza San Marco e i giovani di tutta Italia?
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Gli eroi sono sempre stati immortali, agli occhi di
chi in essi crede. E così crederanno i ragazzi, che il
«Torino» non è morto: è soltanto «in
trasferta». Ma anche a noi, che con animo di ragazzi abbiamo
sempre frequentato e seguitiamo a frequentare gli stadi, sia
consentito immaginare i diciotto atleti del «Torino»,
«in trasferta». Oh, non ci è difficile raffigurarci
il grande campo che, lassù, li attende: senza limitazione di
posti, lastricato di erba eternamente verde e molle, senza macchie di
nuda terra. La squadra campione, con tutto il suo orgoglio di
bandiera, ha voluto recarvisi a carico pieno: non solo gli undici
«titolari» ha condotto con sè; ma anche sette
«riserve», e l'allenatore, e il massaggiatore, e il
direttore tecnico, e perfino tre giornalisti. Vecchie conoscenze
attendevano all'aeroporto quel velivolo carico di giovinezza e di
speranza. E come facilmente le ravvisiamo! In prima fila Emilio
Colombo, l'Omero dello sport italiano, forse l'unico tra noi che
abbia serbato, sino a sessant'anni, intatta, la facoltà di
credere nell'immortalità degli eroi. È lui, è
lui: rossiccio in viso, alto e gagliardo, con lo stesso abito chiaro
di gabardine con cui partì per l'ultimo «servizio»,
e, per la prima volta in vita sua, non si portò al seguito
nè un baule con sette vestiti, sette paia di scarpe e settanta
camicie di ricambio, nè una vasta collezione di saponi e
profumi, nè una vasca da bagno di caucciù. Accanto si
tiene, in un gesto di affettuosa protezione, Attilio Ferraris che di
poco lo precedette. Ferraris è ancora in «maglietta»,
perchè in maglietta partì per la grande
«trasferta», come Caligaris, mi sembra. Essi non
rientrarono, infatti, negli spogliatoi, dopo l'ultima partita
casalinga: dallo stadio di quaggiù a quello di lassù,
tutto d'un fiato. E Neri ? Eccolo lì, col suo lungo naso.
Quella del «Torino» fu proprio l'ultima sua maglia, e non
l'abbandonò che per ammantarsi di tricolore, dopo che i
Tedeschi l'ebbero fucilato su una collina di Romagna. Ma ora
rientrerà in squadra con i compagni; sarà il
diciannovesimo campione d'Italia in quest'ultima definitiva
«trasferta». Ascoltate, ragazzi di San Marco e di tutta
Italia, ascoltate la radiotrasmissione di Emilio Colombo, che ha
ricevuto dalle mani di Carosio, per oggi, il microfono. Domani, poi,
ne leggerete le fasi nelle corrispondenze di Casalbore, di Cavallero,
di Tosatti, i fedeli bardi di tante imprese gloriose, ai quali lo
sport concedeva il meraviglioso privilegio di serbarsi fanciulli
sotto i capelli che ingrigivano. «Mazzola passa a Menti, Menti
indietro a Castigliano... (e qui la voce si fa concitata, e i ragazzi
di San Marco e di tutta Italia si stringono, con gli occhi dilatati
dall'emozione e dalla speranza, intorno all'altoparlante)...
Castigliano avanti di nuovo a Mazzola che dribbla uno... due... tre
avv... goal... goal... ».
Chi grida cosi, chi grida ? Siete voi stessi, ragazzi,
o il vecchio Colombo, l'unico tra noi che sia riuscito a serbare,
intatta, sino a sessanta anni, la facoltà di credere negli
eroi ? O tutta la folla di quell'immenso stadio senza limitazione di
posti in cui il «Torino» è andato a carico pieno
(undici «titolari» e sette «riserve») a giuocare
la sua ultima vittoriosa «trasferta» ?
Triste è piazza San Marco, calva di alberi, con
le sue gialle chiazze di terra senz'erba, con i suoi gruppetti di
ragazzi spogliati dei loro nomi di battaglia e senza palla, solo con
le figurine allineate tra le pozzanghere. Le due squadre che vi
giuocheranno domenica hanno deciso di portare il lutto: un segno nero
al braccio, sulla maglia. I passanti si fermeranno, come sempre, a
guardare; ma invano tenderanno l'orecchio per udire:
- Forza Maroso... bravo, Bacigalupo... - nelle fasi
salienti della partita.
Domenica i giuocatori si chiameranno soltanto Dubini
Mario, Rossi Francesco, Bianchi Giuseppe, e giuocheranno in silenzio,
senza apostrofarsi.
Domenica, otto giorni soli saranno trascorsi
dall'ultima partita a San Siro dove il «Torino», solo a
furia di orgoglio, si ricucì sul petto il quinto scudetto che
inalienabilmente gli spetta (e voglio veder chi oserà
portarglielo via) ma già i primi esili fili di erba saran
cresciuti sulle diciotto tombe della squadra in «trasferta».
«Forza Torino!», «Vinci Torino!».
Indro MONTANELLI |