DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE
Torino 5 maggio, notte.
E domenica, in sede o in trasferta? La vecchietta che da qualche mese gioca con accanimento al Totocalcio annaspa col mozzicone di matita copiativa sulla scheda delle scommesse settimanali; là, in corrispondenza del Torino incontra un inspiegabile vuoto, come un buco nero e profondo che sconvolge i suoi miti calcoli. In sede o in trasferta, domenica? Appartatosi in un angolo della casa, il ragazzetto ha aperto il suo quaderno dove al posto d'onore sono incollate, ritagli di giornale, le facce rassicuranti di Mazzola, Maroso, Bacigalupo, con le annotazioni meticolose delle loro imprese; di nascosto li ha contemplati, e piangeva adagio adagio senza singhiozzi perchè gli eroi dei bambini possono morire tra i nembi di una epica battaglia o travolti dai tifoni dei Caraibi, ma così no, una simile fine è per loro una insensata e inconsolabile ingiustizia.
Avrebbero avuto altrettanto dispiacere i bambini e gli animali semplici di tutta Italia se l'aereo fracassatosi a Superga fosse stato carico di scienziati illustri? No, sia detto sinceramente. E se fosse stato carico di famosi scrittori e poeti, la gente ne avrebbe sofferto altrettanto? Neanche in questo caso se vogliamo essere onesti. Proprio in questa occasione si è misurato e si è capito fino in fondo che cosa possano essere, per la gente senza complicazioni, gli «assi» del calcio. Anche noi, dobbiamo confessarlo, li prendevamo alquanto sotto gamba. Bel merito, saper dare dei calci ad un pallone; val la pena, per una prestazione simile, farne dei superuomini, per essi sgolarsi, smaniare, soffrire, spendere un mucchio di quattrini? Così si pensava molto spesso. E ci voleva la tragedia di Torino per aprirci gli occhi.
Una crudele storia
Ecco che cosa sono i grandi calciatori, lo si è letto oggi sul volto di troppa gente perchè ci si possa ostinare a non intendere. Nella mediocre vita delle grandi città essi portano ogni domenica un soffio di fantasia e di nuova vita; senza sangue nè ira ridestano negli uomini stanchi qualcosa di eroico; proprio così, la parola non è troppo esagerata. Le loro gesta distraggono milioni di cervelli che da soli, nei grigi pomeriggi delle feste, finirebbero per rimestare senza tregua nella miseria della vita. I loro nomi eccitano amori e affanni in petti che altrimenti ristagnerebbero nell'apatia. E perchè allora non altri uomini insigni? Perchè no i pittori, i musicisti, i sommi avvocati, i filosofi? Perchè i campioni di calcio sono più belli, più semplici, più evidenti, più giovani e nelle ore felici, al centro delle arene, risultano un'incarnazione della favola.
Dove gocherà domenica l'intrepido Torino, in sede o in trasferta? Per quattro volte il sole sarà sceso dietro l'orizzonte e poi riapparso, quattro pagine si saranno sfogliate nel libro della vita e del Torino non ci sarà più nulla. Niente di niente. Solo il ricordo, crudele storia che tra molti anni diventerà leggenda. Oltre i diciotto campioni, i dirigenti, gli accompagnatori, una grande personalità fatta di loro, la squadra color granata, è stata uccisa. Mai era successa una disgrazia simile in casa nostra. E gli animi semplici ne sono rimasti offesi come da una sopraffazione. Perciò i bambini oggi hanno pianto di nascosto e innumerevoli persone grandi sono tristi.
Tristissimi, anche senza dirlo, qui a Torino. Il dolore dei torinesi non è fatto di grida, di pubbliche lacrimazioni, di folle in lutto. Ma si rifugia negli angoli, ha pudore, preferisce non farsi vedere. Nelle strade c'era probabilmente meno gente oggi che ieri mattina quando ancora la tragedia non si era compiuta. Non danno in esclamazioni, i torinesi, non si comunicano l'un l'altro ad alta voce ciò che sentono muovere dentro. Oggi, per esempio, un singolare spettacolo era alla sede del «Torino». Gente, per lo più giovanotti, affluiva in pellegrinaggio.
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Entravano, si fermavano, con discreti movimenti si raccoglievano in gruppetti. Non uno parlava. Ecco un conciliabolo raccolto intorno a un uomo seduto: chi era costui? che raccontava forse sapeva qualche singolare particolare del disastro. Ma no: nessuno di quanti gli erano intorno sapeva chi fosse, e lui non apriva bocca. Si guardavano l'un l'altro, muti, immobili, come per un misterioso rito.
Il gruppo dei parenti
Silenzio e quiete anche nella sala in fondo, dove un gruppetto di giovani donne, severe e attonite, incuteva una profonda soggezione. Intorno ad esse, benchè l'afflusso dei visitatori continuasse, c'era un largo spazio vuoto. Nè alcuno le fissava. Sapevano tutti, o indovinavano, che quelle erano parenti o spose. Non osavano però chiedere, e commiserarle apertamente, con sguardi o gesti, o frasi, sarebbe parso brutto e volgare. Anche i tifosi più incolti sentivano però l'alone di tetro dolore che le circondava: e si guardavano bene dal violarlo.
Pure all'ingresso dell'obitorio, dove più aspra è stata la sofferenza delle donne, non si sono udite grida. Da stamane prestissimo madri, mogli, sorelle, fidanzate dei morti si sono messe di vedetta. Per prime la sorella di Fadini, le madri di Castigliano e Rigaminti, poi altre confuse nella folla. Fra tanta gente estranea le si riconoscevano solo dagli occhi più macerati, dall'incavo più luttuoso delle guance. Solo quelle in prima fila, con ferma ostinazione ma sottovoce, chiedevano, non si stancavano di chiedere ciò che pareva sacrosanto: poter entrare nell'obitorio, rivedere i loro cari, per un'estrema carezza e bacio. Per tutta la giornata, fin quando il sole è tramontato (e il cielo finalmente si apriva e luccicavano le stelle), sono rimaste, terribili, inchiodando gli sguardi sui polizziotti che facevano la guardia. «Lasciateci entrare - chiedevano monotonamente ad intervalli, come una goccia ritmica e uguale, piena di desolazionz - lasciateci entrare».
Ma sacrosanto non era ciò ch'esse volevano. E benedetta è stata la fermezza senza pietà delle guardie che non le hanno lasciate passare. Qualsiasi cosa pur che non entrassero a vedere! Perchè le madri e spose credevano che là, dietro al muro, giacessero le loro creature amate, e tutto, i comunicati della stampa, le notizie riferite, lo stesso schieramento di polizia sembravano rafforzare la convinzione. E invece non era vero.
Mesti cortei
Contrariamente a tutto quello che era stato scito e stampato sulla disgrazia di Superga, dietro il muro del camposanto, nei due nudi cameroni dell'obitorio, non giacevano i campioni. Dove fossero in realtà finiti noi non lo sappiamo ma là non erano, siccome abbiamo visto lo possiamo dire. I corpi, o meglio ciò che era stato collocato nei due stanzoni, quegli spaventosi e nefandi resti, contorte membra, maschere inumane, monconi abbrucciachiati, nulla avevano a che vedere con le splendide creature che le donne piangevano per morte. Si trattava di un infame scherzo, di una mostruosa mistificazione. E nulla sarebbe stato più ingiusto che lasciar passare le dolenti.
Si capisce, stasera, per l'illusione necessaria, quei ruderi senza significato di materia corruttibile, sono stati racchiusi in trentun bare e le trentun bare dalle ore 21 sono esposte a Palazzo Madama, dove già trae un sempre più numeroso pellegrinaggio. Ciò è doveroso, si intende, e non farlo sarebbe stato assurdo. Ma non bisogna illudersi. Gabetto, Maroso, Rigamonti, i vostri campioni, non si trovano fra quelle lugubri tavole. Sono lontani. Se mai provate a sfogliare il quaderno del ragazzetto che stamattina si appartava in afflizionz: là forse li ritroverete, su quelle innocenti pagine, per sempre intatti e puri.
Dino Buzzati |